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Brand community: perché le aziende devono crearle e quali sono i vantaggi

Gennaio 14, 2022
Pubblicato da: 
Project Manager

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Che cos’è una brand community?

Una brand community è una comunità formata da persone che hanno un legame emotivo con una marca, un prodotto o un servizio di un’azienda. Per sviluppare una brand community, un’azienda deve puntare su valori forti e riconoscibili, in grado di creare un’assonanza con le persone interessate alla sua offerta, e deve costruire relazioni solide, non solo dal punto di vista commerciale, ma anche sociale.

Con le ultime evoluzioni nel marketing digitale, legate alla rilevanza sempre maggiore della privacy degli utenti e all’alba dell’era cookieless, è diventato sempre più evidente che il concetto di brand community debba necessariamente passare da un sistema strutturato di raccolta e gestione dei dati proprietari (o di prima parte). Ma al centro di tutto questo c’è sempre la relazione tra azienda e clienti.

In questo articolo vedremo come storicamente è originato il concetto di brand community e quali sono i fattori su cui le aziende devono puntare per crearne una propria, dando valore alla privacy, ai dati, ma soprattutto alla gestione della relazione con i clienti.

L’origine del concetto di brand community

Il ragionamento sulle brand community prende origine dal concetto di gruppo sociale. In senso molto ampio, per gruppo sociale si intende l’adesione di una comunità di persone a valori in comune, attraverso la condivisione di interessi, attività, aspirazioni. Se nella modernità i gruppi sociali si creavano attorno a un contesto sociale condiviso (ad esempio il luogo di lavoro, o l’appartenenza a un’associazione sportiva, un partito politico, e così via…), nel periodo attuale l’accezione si è estesa fino a coprire l’adesione delle persone ai valori espressi da una marca, che può essere così portatrice di interessi sociali condivisi.

Per quanto riguarda il marketing, era il 2003 quando Bernard Cova, sociologo francese, parlava di marketing tribale, un concetto poi ripreso nel libro del 2007 “Marketing non convenzionale”, scritto dallo stesso autore insieme ad Alex Giordano e Mirko Pallera. Per quanto la prospettiva fosse sociologica, e un po’ antropologica - poiché si riconosceva questo valore in un approccio mediterraneo al marketing, in opposizione all’individualismo tipicamente nordamericano - si può dire che questi concetti abbiano assolutamente centrato l’evoluzione del marketing dei due decenni successivi: il desiderio dei consumatori era, ed è, quello di riconnettersi ai brand. I clienti, e le persone (anche nel B2B), scelgono a chi affidare la propria fedeltà in base alla comunanza di valori e alla qualità della relazione che si crea con le aziende, in uno scambio reciproco di valori immateriali.

Le brand community nascono proprio per questo: soddisfare il desiderio delle persone di connettersi a un brand nei cui valori si riconoscono. 

Lo spazio dei brand nella realtà omnicanale

Facciamo un salto avanti di circa 18 anni, ai giorni nostri, non prima di avere ripercorso un po’ di storia dei media digitali per sommi capi. Dopo un periodo iniziale in cui al centro dei dibattiti stava il permission marketing e l’invasività della comunicazione pubblicitaria digitale, si sono riscoperte le community (di terze parti) con l’iscrizione di massa ai social network.

Se dal punto di vista dell’utente il web era sempre più ricco di gruppi dove accrescere le proprie conoscenze ed informarsi, dal punto di vista delle aziende si moltiplicavano le occasioni dove essere presenti e mettere in vetrina - se non addirittura in vendita, con l’avvento degli e-commerce - i propri prodotti e servizi.

Una volta che i canali digitali sono diventati saturi di aziende, gli utenti hanno legittimamente iniziato a stufarsi di partecipare a quello che credevano essere un mezzo dedito all’intrattenimento, quali sarebbero i canali social, trasformati in una fiera commerciale. Così, l’attenzione degli utenti si è spostata sulle nicchie, sui gruppi privati su Facebook, applicazioni verticali, influencer e creator su YouTube, Instagram o TikTok. E ora l’attitudine delle persone all’utilizzo del digitale, dopo 20 anni di vita sdoppiata tra “dimensione digitale” e “dimensione reale”, sta convergendo verso una realtà ibrida in cui i confini sempre più sfumati (e non ci addentriamo nell’universo del metaverso!).

In questa realtà effettivamente omnicanale, che spazio possono trovare i brand? Le aziende, come sempre da quando esiste il marketing, devono analizzare il customer journey delle loro target audience per raggiungere i potenziali clienti con i messaggi più contestuali possibili nel momento più adatto, usando il mix di strumenti più idonei.

Quando i brand creano le community

I brand hanno l’opportunità di non “inseguire” gli utenti (anche perché, a inseguire la generazione Z, si farebbe la fine del marketing manager in questa vignetta di Marketoonist), ma di creare un ecosistema di marca proprietario in cui convogliare i propri valori, invitando le persone a farne parte in base ai codici sociali tipici di una comunità. Non è una novità degli ultimi mesi: i grandi brand consumer o i grandi retailer mettono in atto questa pratica da almeno dieci anni; basti pensare alla community di brand come Mulino Bianco o Nutella, e ai sistemi di relazione di brand della distribuzione come Ikea o Despar.

A proposito di retail, secondo una recente ricerca di Google sull’omnichannel customer experience, in questo ambito è fondamentale trovare strumenti per coinvolgere i propri potenziali clienti nell’immediato, per gettare le basi di relazioni a lungo termine. Nel retail, ad esempio, offrire una app per i propri clienti consente di raccogliere dati di prima parte che possono consentire di individuare nuovi trend nel comportamento dei consumatori e di generare più valore.

Le chiavi per poter trasformare il seguito di un’azienda in una brand community sono:

  • Lavorare alla creazione di un database di clienti affezionati
  • Raccogliere in modo strategico e strutturato dati proprietari, cioè informazioni che i clienti decidono di condividere con il loro esplicito consenso
  • Convogliare le interazioni tra l’azienda e i suoi clienti e tra i clienti all’interno di una piattaforma di proprietà (ad esempio un sito web con un’area registrata o un’applicazione mobile).

Le brand community possono così creare vantaggi sia per l’azienda sia per i loro clienti:

  • Le aziende avranno più insight mirati sui propri clienti
  • Le aziende saranno aderenti alla normativa privacy
  • I clienti condividono, consapevolmente, informazioni che li porteranno a ricevere contenuti rilevanti, di reale loro interesse, e nel complesso un'esperienza più soddisfacente e in linea con le loro aspettative.

Alcuni esempi di brand community

Gli esempi di brand community basati su sistemi proprietari (sito web con area riservata o app) provengono più che altro da brand consumer e da retailer, come anticipato nel precedente paragrafo. I brand del settore GDO (come Despar, Pam, LIDL Plus) o retail (come H&M) usano infatti frequentemente app proprietarie per entrare in contatto con il cliente finale. Più interessante è il caso di brand B2C che hanno implementato la vendita diretta con negozi monomarca o con l’e-commerce, ma che sono presenti soprattutto in store multimarca.

Un esempio è la member community di Nike, basata su un’app che è sia un canale di vendita dei prodotti, sia soprattutto un sistema relazionale volto a coinvolgere i clienti con suggerimenti di personalizzazione, guide all’acquisto e segnalazione di trend. Per i membri, l’app è la porta d’accesso a un mondo di vantaggi esclusivi, come sconti, anteprime e contenuti speciali.

Il caso di Nike dimostra come è possibile utilizzare in modo strategico le informazioni raccolte sugli iscritti, grazie all’analisi dei dati di acquisto in-store e del comportamento di navigazione nell’e-commerce e nell’app. Tutto questo offrendo una forte personalizzazione oltre che un incentivo all’acquisto, così da far sentire il cliente al centro di una community di persone con la stessa passione e che condividono il valore centrale di Nike: essere di sostegno alla crescita del movimento sportivo e del benessere.

Molti sono anche i brand che hanno le proprie community all’interno di canali social, soprattutto su Facebook. Ad esempio il gruppo Facebook ufficiale di GialloZafferano dà la possibilità a qualsiasi utente di postare la propria ricetta, senza che sia necessariamente un blogger all’interno del network. Oltre ad incrementare la percezione partecipativa del brand, questo gruppo può essere molto utile anche per fare scouting di nuovi blogger.

Sempre nel novero dei gruppi Facebook, molto noti sono i casi di quelli che vengono creati spontaneamente dai clienti, come per i discount LIDL o Aldi, dove quotidianamente gli utenti si segnalano le molte offerte, spesso poco visibili, che si possono scovare all’interno di questi supermercati. Sebbene questi gruppi non siano ufficiali, sicuramente sono usati dalle aziende in questione per monitorare il sentiment dei propri clienti e per valutare alcune tendenze di acquisto.

Le aziende e l’importanza dei dati di prima parte

dati proprietari (o dati di prima parte) sono i dati di proprietà dell’azienda, relativi a come l’utente interagisce con il brand. Questi portano grandi vantaggi alle aziende, perché consentono di avere proprietà e controllo sui dati degli utenti, tutelandoli come da legge e costruendo con loro un rapporto di fiducia, che può essere trasformato in una grande opportunità.

Secondo una ricerca di Google insieme a Boston Consulting Group, una delle aree cruciali su cui le aziende devono concentrarsi per raggiungere la loro maturità in termini di marketing digitale è proprio dare importanza ai dati proprietari. I vantaggi che possono apportare i dati proprietari alle attività di business, rispetto ad aziende con un’integrazione dei dati limitati, sono:

  • Fino a 2 volte aumento dei ricavi pubblicitari
  • Fino a 1,5 volte incremento del risparmio sui costi.

Questi ottimi rendimenti sono possibili sviluppando una strategia di organizzazione dei dati primari in modo da creare uno scambio di valore bidirezionale tra azienda e clienti, in forma trasparente. Questo scambio può essere creato dall’offerta di contenuti speciali in cambio del rilascio dei dati, oppure dalla promessa di inviare delle offerte esclusive in modo periodico, fino ad arrivare all’appartenenza a una vera e propria brand community dove solo i clienti fidelizzati possono godere di certi vantaggi nella relazione con l’azienda.

I dati proprietari nel digital advertising

Tutta questa attenzione nei confronti dei dati di prima parte deriva dalle recenti evoluzioni della pubblicità digitale, specie con l’abbandono dei cookie di terza parte (l’alba dell’era cookieless, citata prima: per approfondire abbiamo scritto questo articolo), che venivano installati nei browser degli utenti dalle maggiori piattaforme pubblicitarie, portando quindi alla raccolta da parte del sito dell’azienda di dati di terza parte, che gradualmente scompariranno. Le brand community rappresentano dunque un’ottima opportunità per avvicinare gli utenti al proprio brand tramite tecnologie proprietarie.

Come creare una brand community?

Nel loro piccolo, le piccole e medie imprese possono avere difficoltà a progettare strutture tecnologiche che possano gestire in modo efficiente i dati proprietari, così come in primis a creare delle modalità per raccoglierli. Ma la nuova era del marketing digitale parla chiaro, e costringe indirettamente le aziende, di qualsiasi dimensione, a mutare la loro forma mentis, mettendo finalmente, e una volta per tutte, gli utenti al centro.

Su quali fattori - anzi, su quali concetti - dovrebbero puntare le aziende per avere un proprio ecosistema di dati di prima parte, e quindi a tutti gli effetti una brand community?

Un perché. Ora, più che mai, è importante che un’azienda sia un brand. Un brand ha un’identità chiara e distintiva nel proprio mercato, e riesce a comunicare il proprio valore aggiunto in modo efficiente al pubblico di riferimento.

Una direzione. Un’azienda deve avere uno o più obiettivi definiti, e questi devono essere misurabili.

Una strategia. Gli obiettivi devono essere al centro di una strategia delineata e coerente.
Se ad esempio un’azienda vuole aumentare la frequenza d’acquisto o lo scontrino medio, dovrà indagare sui fattori di facilitazione che permettano ai propri clienti di acquistare più spesso o di più, offrendo delle promozioni esclusive o incentivando l’upsell o il cross-sell.

La relazione. I clienti devono essere curati in tutto il loro ciclo di vita attraverso strumenti di gestione della relazione (qualcuno ha detto CRM?), che permettano - attraverso la conoscenza puntuale delle loro esigenze, delle loro interazioni e dei loro comportamenti - di offrire loro la migliore esperienza possibile.

La fiducia. Chiedere dati sul comportamento ai propri clienti o potenziali tali presuppone trasparenza da parte dell'azienda e, soprattutto, fiducia da parte dei consumatori che prestano il loro consenso. Ma d’altronde, chiarezza, coerenza e trasparenza dovrebbero di per sé portare a questo valore. E un cliente che si sente appagato può essere il più grande tesoro che l’azienda possieda.

***

È arrivata quindi l’era delle aziende cha hanno una relazione diretta con gli utenti, cioè delle aziende che possono generare una brand community, attivando uno scambio virtuoso e reciproco di valore.

 

Hai già creato nella tua azienda un sistema di raccolta e gestione dei dati di prima parte?

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Riccardo Coni
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